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Dalla vittimologia all'istigazione al suicidio (“La Voce” di Rovigo 02.08.2011)
di Patrizia Trapella e Luca Massaro

Sono di qualche giorno fa due notizie che hanno attirato la nostra attenzione.
La prima riguarda il suicidio di una persona nota, Mario Cal, vice-presidente dell’ospedale San Raffaele di Milano, per il quale il Pubblico Ministero titolare delle indagini stava valutando l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio (è un atto dovuto). La seconda vede protagonista la Procura di Bologna nello sforzo di chiarire il tentativo di suicidio di un’anonima 16enne pachistana residente in città. Anche in questo caso è ipotizzata l'istigazione al suicidio.
Diverse l’estrazione socio-culturale e l’età, unico il minimo comune denominatore: il suicidio.
Anche se solamente mancato, è un evento che lascia stupiti e senza parole. Un uomo o una donna o un giovane o un anziano che sia, non importa. Perché una persona si uccide (o vuole uccidersi)?
Il suicidio è la negazione dell’istinto di sopravvivenza. Tuttavia, statisticamente parlando e fatta grossolana eccezione per i bambini, esso può colpire tutti. Persone conosciute o meno, di ogni età, sesso, latitudine e ceto sociale. Nel giugno 2009 addirittura un miliardario, centenario e filantropo (americano), si tolse la vita. Perché?
Per una serie di motivi, questa non è la sede opportuna per discutere e approfondire il contesto in cui matura l’idea di quel gesto autosoppressivo che mina alla base le radici della nostra cultura, fa tremare la storia dell’umanità su questa terra e disorienta l’uomo sociale. La nostra intenzione è quella di rilevare che, in effetti, alcuni suicidi destano più dubbi di altri in cui già le certezze sono poche e le ipotesi più di una. In altre parole, ci sono suicidi in cui qualcosa non convince del tutto. 
Dal punto di vista tecnico-giuridico (codice penale), nel caso di un rinvenuto cadavere vi sono due essenziali ipotesi di reato: omicidio (o suicidio simulato) e suicidio; ma si può andare oltre la scena del crimine propriamente detta (luogo di rinvenimento del cadavere) e l’area di indagine diviene allora impervia e ostica. È la tipica fattispecie codicistica che lo pretende. Si tratta dell’ipotesi di reato dell’istigazione al suicidio, disciplinata dall'articolo 580 del codice penale in cui l'oggetto specifico della tutela é costituito dall'interesse dello Stato alla sicurezza della persona fisica con particolare riferimento al bene giuridico della vita che si intende salvaguardare contro i fatti di partecipazione all'altrui suicidio.
Nel nostro ordinamento giuridico la punibilità di colui che partecipa o meglio concorre all'altrui suicidio non é incondizionata bensì subordinata a due condizioni mutuamente esclusive: la prima è che il suicidio avvenga effettivamente e che quindi la persona muoia. La seconda è che l'evento morte non si verifichi ma che dal tentativo di suicidio derivi una lesione grave o gravissima.
Vi é da dire che per la sussistenza del reato é necessario che il soggetto cosiddetto passivo abbia posto in essere un'attività idonea a mettere in pratica l'intento di uccidersi ed abbia realmente maturato tale intenzione. Ed in vero, se egli volendo fingere il suicidio, quindi simulandolo, realmente muore per altra causa, l'istigatore ovvero l'agevolatore non risponde del reato di cui all'articolo 580 del codice penale poiché la sua azione é rimasta priva di effetto.
Non solo. La condotta suicida deve essere comunque riferibile alla volontà del soggetto passivo, seppur influenzata in maniera determinante dall'istigatore/agevolatore. Se manca la volontà, il suicida diventa uno strumento della volontà altrui ed il reato che si configurerà sarà quello di omicidio.
Esposta la complessa cornice poliedrica entro cui va inquadrata l’istigazione al suicidio si possono comprendere le ragioni per cui essa sottintenda profili investigativi del tutto peculiari. Una metodica investigativa vera e propria, patrimonio delle forze dell’ordine e del magistrato inquirente e una squisitamente medico-legale e/o criminologica e, perché no, psico-sociologica. 
Entrambe con specifiche competenze: l’una l’ambiente e le persone; l’altra il cadavere e la mente del suicida. 
Tale approccio non è un semplice virtuosismo criminalistico bensì una necessità perché il rischio da un lato è quello di rincorrere fantasmi assassini in ogni caso di suicidio e, dall’altro, concludere frettolosamente e superficialmente un’indagine suicidiaria perché ritenuta risolta prima ancora di iniziare.  
Allora, forse destando qualche perplessità, va affermato con forza che il punto critico della questione è rappresentato dalla necessità dello studio della vittima (vittimologia) che in Italia non ha ancora raggiunto la diffusione che ci si attenderebbe per poter comprendere a fondo questa e anche altre ipotesi delittuose. 
Quello di cui parliamo (la vittimologia) nasce nei primi decenni del secolo scorso allorché Mendelsohn, sulla scorta dell’esperienza casistica del suo studio legale, avanzò l’ipotesi di una disciplina che avesse come oggetto di studio la vittima di reato. Poi, Von Hentig, Ellenberg, Wolfgang, Schafer e altri ancora spiegarono, estesero, diffusero e circostanziarono il concetto.
L’oggetto di studio nell’istigazione al suicidio è dunque la vittima. Non la scena del crimine, non il cadavere in sé e per sé e nemmeno la causa di morte. Un attimo. Formuliamo meglio l’asserzione.
Ristabilendo tutte le appropriate coordinate investigative, gli oggetti di studio sono certamente la scena del crimine, il cadavere e la causa di morte e l’ambiente e i conoscenti, ma anche e soprattutto la vittima con i suoi rituali, abitudini, hobbies … La vittima che deve essere analizzata scientificamente nella sua vita quotidiana perché l’obiettivo ultimo è penetrare nella sua vita per tentare di conoscere la sua morte e ripercorrere gli ultimi anni, mesi e giorni scavando nelle loro pieghe alla ricerca dei pensieri mai espressi.
In tempi in cui la scienza sta viaggiando nel futuro lungo orizzonti tecnologici un tempo nemmeno immaginabili e consente di elaborare strumentazioni sofisticatissime, la fase investigativa dell’istigazione al suicidio, soprattutto quando portato a termine, ci propone un processo indietro nel tempo nella vita del suicida e ci impone l’essenzialità degli strumenti investigativi: pensare, conoscere, riflettere, chiedersi, rispondere. Tappe obbligate del processo logico-scientifico e non necessariamente da utilizzare nell’ordine. 
La mente degli investigatori in senso lato che si confronta con la mente del suicida. Almeno in questo senso, la mente umana è più duttile e promettente di qualsiasi apparecchio tecnologico.